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L’INVERSIONE A U DELL’AMERICA

L’economia statunitense non registra più un boom economico davvero importante dai tempi dei tagli fiscali di Reagan nei primi anni ’80. Tuttavia, il 2021 sembra preannunciarne un altro, specialmente se le vaccinazioni COVID-19 avranno successo e le varianti che si stanno diffondendo nel mondo non comporteranno altre battute d’arresto. L’economia si sta riprendendo, ma la classe politica ha le tasche piene di risorse finanziarie a debito da spendere ed è accecata dal populismo. Permangono livelli di sostegno macroeconomico senza precedenti. Quest’anno si moltiplicano i segnali di una trasformazione della congiuntura fortemente negativa dello scorso anno in un boom straordinario.

Ronald Reagan si starà rivoltando nella tomba. Gli interventi di spesa fiscale senza precedenti attuati degli Stati Uniti per contrastare l’emergenza sanitaria nazionale sono destinati a proseguire oltre la crisi e rappresentano un tassello di ciò che possiamo tranquillamente definire un cambio di passo storico. La rivoluzione Reagan-Thatcher ha enfatizzato la libera impresa e l’economia di mercato come strada verso la prosperità. Reagan pensava che “il governo non è la soluzione al nostro problema; è il problema”. Nei 40 anni successivi ai tagli fiscali di Reagan, la prosperità mondiale ha registrato un’espansione senza precedenti. Il prodotto interno lordo (PIL) reale pro capite degli Stati Uniti è raddoppiato e centinaia di milioni di persone sono uscite dalla condizione di povertà in Cina e in altre economie in via di sviluppo dopo aver adottato regimi simili. Questi progressi sono stati sostenuti da un regime monetario lungimirante e anti-inflazionistico, inizialmente istituito da Paul Volcker che negli ultimi 30 anni ha favorito un tasso di inflazione tra l’1% e il 2,5%.

I critici dell’era Reagan sostengono che la disparità di reddito e ricchezza è drammaticamente peggiorata, sia tra i paesi che al loro interno, e che questi fattori si sono ulteriormente deteriorati dopo la pandemia. Il presidente Biden ha costruito la sua campagna su questo tema, promettendo un programma completo di ridistribuzione della ricchezza e di appiattimento della curva del reddito. Nella nuova concezione un grande governo sa offrire una soluzione e la risposta viene da Washington. La nuova amministrazione ha avviato il trimestre integrando il programma da 900 miliardi di dollari del presidente uscente Trump con una spesa di 1.900 miliardi di dollari. Ci sono probabilmente 20 milioni di americani che hanno davvero bisogno di sostegno per superare la pandemia, ma fino a 287 milioni di persone potrebbero ricevere l’assegno da 1400 dollari. Inoltre, i governi statali e locali hanno ricevuto una pioggia di denaro, circa il 40% delle entrate annuali nonostante bilanci solo marginalmente più deboli rispetto all’anno precedente. In più tali risorse non sono arrivate da un taglio alle imposte. Il chiaro intento è quello di incoraggiare questi governi a spendere il denaro. La spesa è così elevata da riuscire ad imbarazzare anche un economista keynesiano; Larry Summers la definisce la politica fiscale meno responsabile degli ultimi 40 anni. La prima parte del programma “Ricostruire meglio” di Biden - l’American Jobs Plan - include un altro budget multimiliardario finanziato attraverso un aumento temporaneo dell’imposta sulle società, che sarebbe il più ambizioso degli ultimi 40 anni. Secondo alcune stime, gli inasprimenti fiscali proposti potrebbero innalzare le tasse sulle società statunitensi al livello più alto di tutti i paesi dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE).

La natura estrema delle iniziative di politica fiscale degli Stati Uniti e la ricetta politica prevalente in questo trimestre sembrano inopportune a giudicare dalla risicata vittoria elettorale. Tuttavia, i decisori politici affermano con chiarezza e convinzione di voler ricorrere alla politica monetaria e fiscale per correggere la disparità di reddito attraverso una combinazione di grandi programmi di spesa, misure fiscali redistributive e condizioni monetarie accomodanti. Per esempio, il presidente della Federal Reserve (Fed) Powell ha esteso l’idea iniziale di un basso tasso di disoccupazione a favore di un obiettivo più “ampio e inclusivo”, concentrandosi sui segmenti del mercato del lavoro che hanno impiegato più tempo a recuperare le perdite. Questi obiettivi includono “la crescita dei salari più bassi e l’inserimento nella forza lavoro per le persone prive di titoli di studio”. Inoltre, l’amministrazione Biden sta attingendo alla ricetta cinese, adottando politiche industriali volte a una maggiore autosufficienza lato offerta di una serie di attività produttive, compresa l’industria dei semiconduttori. È un progetto che vedrà la luce solo con il sostegno del governo e caricando sui consumatori costi più elevati. È un copione già visto in passato. In pochi anni si passerà da una carenza a una sovrabbondanza di semiconduttori.

Non siamo certi di come evolverà la situazione nel lungo periodo, soprattutto considerando l’inasprimento delle imposte che ci attende. Tuttavia, l’attuale stimolo sovralimenterà un’economia già in via di recupero dopo le chiusure generalizzate dello scorso anno. Il rapporto sull’occupazione statunitense di marzo ha offerto un assaggio di ciò che potrebbe serbarci il futuro. In un mese è stato creato un milione di posti di lavoro (al netto dei licenziamenti). È importante notare che i maggiori incrementi hanno riguardato i settori del tempo libero e dell’ospitalità, che sono stati i più colpiti dalle chiusure dell’anno scorso e i primi responsabili della vasta portata della crisi. A questo ritmo, il tasso di disoccupazione tornerebbe ai livelli pre-pandemici entro la fine dell’anno. La ricetta economica continua ad assecondare il rapido recupero che di solito si verifica dopo un disastro naturale, e non la ripartenza graduale nel tempo che segue spesso una recessione più tradizionale.

Il rimbalzo è in corso in tutto il mondo, nonostante i tempi e la gestione della campagna vaccinale nei vari paesi. I volumi delle importazioni globali hanno recuperato rapidamente terreno, raggiungendo livelli superiori a quelli pre-pandemici. Gli indici dei responsabili degli acquisti stanno salendo vertiginosamente. L’Europa ha imbastito con fatica i suoi programmi di vaccinazione, ma l’economia ha riservato sorprese positive e dati più robusti del previsto. La politica fiscale europea comincia a convergere su un obiettivo molto diverso. Verosimilmente, quest’anno le regole di Maastricht saranno sospese e si inizierà ad attingere ai 672,5 miliardi di € stanziati dal Dispositivo per la ripresa e la resilienza. Persino in Giappone si profila una nuova emergenza fiscale. Kozo Yamamoto, che ha avuto un ruolo chiave nella concezione dell’Abenomics, sta approntando proposte da sottoporre al primo ministro Yoshihide Suga e sostiene la necessità per il Giappone di un’altra dose abbondante di medicina fiscale, ambiziosa quanto la legge sugli aiuti appena approvata negli Stati Uniti. La produzione industriale asiatica è in crescita, mentre l’occupazione australiana è quasi tornata ai suoi massimi livelli. Un’eccezione importante a queste ricette politiche viene ancora dalla Cina. Caute nel ricorrere alla politica monetaria e fiscale durante la crisi, le autorità cinesi hanno presto preso il controllo del virus, riuscendo così ad accelerare la ripresa economica. Le autorità negano di voler premere sul freno, ma è ciò che stanno facendo. L’impulso al credito si sta esaurendo, lo stimolo fiscale va diminuendo, i tassi d’interesse sono aumentati e le autorità stanno cercando di raffreddare il settore immobiliare.

In questa cornice, la correzione nel mercato obbligazionario globale non ci ha sorpreso. L’economia mondiale si sta rinormalizzando, al pari dei tassi di interesse a lungo termine. L’economia cinese è stata capofila, seguita a ruota dai tassi a lungo termine. Nel primo trimestre il PIL reale degli Stati Uniti è effettivamente risalito ai suoi massimi e i rendimenti obbligazionari hanno recuperato i loro livelli pre-pandemici. Anche mercati depressi come quelli dei titoli di Stato giapponesi e dei Bund tedeschi hanno visto una certa normalizzazione.

Sinora l’aumento dei rendimenti obbligazionari globali è avvenuto in modo abbastanza graduale, nonostante il balzo dei rendimenti nel primo trimestre. Il mercato ribassista, che riflette l’aumento dei rendimenti di equilibrio concomitante con la rinormalizzazione dell’economia mondiale, non ha pesato. Questa view è confermata dall’andamento delle azioni globali dove è in atto una rotazione dai titoli growth a lunga durata e ad alta capitalizzazione verso settori ciclici deep-value. Nel complesso i multipli sono rimasti stabili mentre le prospettive di utili aumentano di pari passo con le proiezioni economiche e i rendimenti. Allo stesso modo, nonostante la loro terza peggiore perdita in 40 anni, gli spread delle obbligazioni societarie investment grade statunitensi sono rimasti relativamente stabili, a indicare l’assenza di una stretta finanziaria o di tensioni economiche. L’aumento dei rendimenti statunitensi ha risollevato quelli dei titoli di Stato dei mercati emergenti, ma i rischi legati ai credit default swap e alla solvibilità sono rimasti bassi.

QUAL È LA PROSSIMA NOVITÀ IN CANTIERE?

L’andamento dei prezzi degli asset e le indagini condotte mostrano che la maggior parte degli investitori si attende un miglioramento dell’economia mondiale. La nuova parola d’ordine è reflazione. La rinormalizzazione ha spinto i prezzi delle obbligazioni globali ad avvicinarsi ad un livello neutrale o di lieve sottovalutazione, da quello fortemente sopravvalutato di un anno fa. Per effetto di questo cambiamento, la spinta propulsiva del ritorno alla media si è ormai esaurita e la prossima grande variazione nei tassi a lungo termine deriverà da un evento macroeconomico.

Come suggerisce la discussione precedente, la correzione del mercato obbligazionario non si è ancora conclusa se, come crediamo, siamo alla vigilia del più grande boom economico degli ultimi decenni. È probabile che il boom esponga almeno a un ciclo inflazionistico. Le foto della grande nave porta-container Ever Given incagliata nel canale di Suez riassumono in immagini i ritardi accumulati e le interruzioni nella catena di fornitura globale. Questo problema si acuirà, prima di migliorare grazie alla ripresa dell’attività economica. Lo stimolo della politica gonfierà il rimbalzo, con scorte già ridotte, ordini che si accumulano, prezzi delle materie prime in aumento e tassi di inflazione di pareggio che schizzano: il breakeven a 5 anni è alto come non era mai stato da prima della crisi finanziaria globale. L’analisi di correlazione implica che le spese per i consumi personali di base (PCE) saliranno ben oltre la soglia di inflazione del 2% nei prossimi 6-12 mesi.

Un altro segno della valenza epocale dell’attuale cambio di regime e della propensione a breve termine verso un aumento dell’inflazione viene dal mutato orientamento della Fed, il cui sguardo prima proiettato al futuro è ora rivolto al passato. Il presidente della Fed Powell sostiene che il fallito tentativo della banca centrale di portare il tasso medio d’inflazione al 2% è stato causato negli ultimi 12 anni da una politica preventiva. Ora invece la Fed mira a correttivi postumi: puntare a un livello non specificato di inflazione sopra il 2% per un periodo indeterminato, ma mantenendo salde le aspettative. Finora, il mercato crede nell’impegno della Fed per attuare questo nuovo approccio. Per la prima volta dalla crisi finanziaria globale i tassi d’inflazione di breakeven a breve termine sono saliti oltre i livelli di lungo periodo, ma il tasso d’inflazione a 5 anni tra 5 anni resta al di sotto dei livelli di qualche anno fa. La debolezza demografica, le tecnologiche dirompenti e le spinte della globalizzazione che stavano alimentando il ristagno secolare prima della pandemia non sono scomparse. Il Giappone è l’economia-simbolo per capire gli effetti di queste forze e ciò che la politica macroeconomica è in grado di fare. Di diverso c’è che il mondo intero pare ora aver abbracciato le politiche del governo giapponese, fondate sulla gestione di elevati disavanzi di bilancio e sull’espansione del bilancio della banca centrale. Una cosa è quando lo fa un paese, altra cosa è quando tutto il mondo ne segue le orme, e la maggior parte degli attori di mercato non ha mai sperimentato un’inflazione crescente.

La più grande incertezza riguarda il tasso di risparmio. L’impennata iniziale del tasso di risparmio delle famiglie è coincisa con il crollo dei rendimenti obbligazionari dell’anno scorso e con il picco della disoccupazione. Da allora un parziale sollievo è venuto dai redditi di emergenza distribuiti nel corso della pandemia. Successivamente la rinormalizzazione ha risollevato i rendimenti, ma se i tassi di risparmio si riporteranno ai livelli pre-pandemici, l’impatto sulla crescita economica sarà esplosivo. Se anche lo stock di risparmi liquidi accumulati durante questo periodo di elevati tassi di risparmio venisse speso, il PIL nominale crescerebbe oltre il suo livello potenziale tanto quanto era sceso nel 2020. Per misurare l’effetto potenziale di questa distribuzione di liquidità si può stimare l’impatto sul PIL di un aumento della velocità di circolazione del denaro ai livelli pre-pandemici. Secondo alcune stime, il PIL nominale crescerebbe di 15 punti percentuali sopra il suo potenziale.

RISCHI

A minacciare la prospettiva di un boom dell’economia mondiale intervengono probabilmente tre rischi principali, che fanno sollevare i rendimenti obbligazionari e irripidire la curva, oltre alla minaccia di un’esplosione di varianti virali che comportano chiusure generalizzate di oscatolo alla ripresa.

Il primo rischio è quello di un’ondata di panico tra investitori obbligazionari che genera un aumento indisciplinato dei rendimenti, con conseguente debolezza generalizzata del mercato azionario e un successivo crollo della crescita. A un certo punto, se lo slancio economico inizierà davvero ad attecchire e i responsabili politici non interverranno, i bond vigilantes potrebbero fare ostruzione e provocare turbolenze che inibiscono la crescita.

Un secondo rischio verrebbe da una politica di sostegno al rafforzamento del biglietto verde. Il dollaro prezza poco sotto il suo livello pre-pandemico, nonostante l’ingente quantità di moneta immessa sul mercato e i cambiamenti nelle politiche economiche. L’assenza di debolezza nonostante la portata dei flussi monetari dimostra l’esistenza di una straordinaria domanda di dollari, che associamo alla crisi e agli elevati tassi di risparmio. Secondo la nostra view economica, questa domanda di dollari dovrebbe arretrare, aprendo la strada a un aumento del PIL nominale e dei tassi. Un’errata politica della Fed, che iniziasse a ridimensionare le sue azioni prima dell’effettiva discesa della domanda di dollari, rischierebbe di sostenere la valuta e indebolire le chance di un aumento consistente dei rendimenti obbligazionari rispetto ai livelli correnti. Correlato a questo rischio è quello dell’orientamento macro-politico della Cina, che ha già reso meno accomodanti le sue misure di intervento. Non riteniamo possibile un piccolo rallentamento dell’economia cinese nella seconda metà dell’anno, che tuttavia resterà stabile. Il rischio di coda verrebbe da un mutamento in senso troppo restrittivo delle politiche e da un conseguente inizio di rallentamento della Cina. La Cina è troppo grande perché una flessione del suo tasso di crescita non incida sull’economia mondiale e non rischi di favorire un rafforzamento del dollaro.

Un’ultima incognita ben nota riguarda il conflitto tra gli Stati Uniti e la Cina che si gioca nel Mar Cinese Meridionale. Molti credono che le probabilità di una guerra tra i due giganti stiano aumentando. Le tensioni correnti hanno il loro epicentro in Taiwan, per le questioni seguenti: lo status di Taiwan come centro di fornitura mondiale di semiconduttori; il sostegno degli Stati Uniti all’indipendenza di Taiwan; infine, la determinazione della Cina a riportare l’isola sotto il controllo nazionale del Partito Comunista Cinese. Gli incidenti accadono, e uno scontro militare sembra possibile in qualsiasi momento, ma una guerra produrrebbe effetti così pesanti per entrambi i protagonisti da classificare il rischio di un conflitto come evento estremo.

PROSPETTIVE

Nel secondo trimestre, la risalita dei rendimenti ha eliminato l’anomala sopravvalutazione presente in molti mercati. In alcuni casi esiste persino qualche piccola opportunità di valutazione. La spinta generata dal ritorno alla media dei prezzi si è esaurita; di conseguenza, le chance di una sottoponderazione della duration dipendono dalle prospettive macro. A nostro modo di vedere, il rischio di informazione fa propendere nettamente verso un’espansione più robusta di quella già scontata.

Crediamo che la straordinaria domanda di dollari statunitensi, che difende la valuta dal calo dei rendimenti reali statunitensi a breve termine, dallo squilibrio dei pagamenti esteri e dall’eccezionale cambio di regime interno, sia legata all’elevato tasso di risparmio interno. Perché il dollaro si indebolisca, deve allentarsi la sua domanda, come crediamo avverrà quando l’economia e l’occupazione acquisiranno slancio nel corso di quest’anno. Il rischio è che la Fed riduca i suoi interventi sul mercato prima che avvengano questi importanti cambiamenti. La Fed si è limitata a dichiarare che la normalizzazione non avverrà quest’anno.



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