CIO VIEWS
CONTRIBUTORI

Sonal Desai, Ph.D.
Chief Investment Officer,
Franklin Templeton Fixed Income
Gli investitori obbligazionari hanno iniziato il nuovo anno su una nota di grande ottimismo. Sembrano convinti che la battaglia contro l’inflazione sia già stata vinta. La Federal Reserve (Fed) potrebbe effettuare ancora qualche piccolo rialzo per rimanere sul sicuro, ma presto torneremo a un mondo di tassi d’interesse molto bassi; questa sembra essere l’opinione prevalente sulla base dell’andamento dei prezzi.
Tale convinzione è stata rafforzata dai dati incoraggianti sul Consumer Price Index (CPI) statunitense di dicembre: l’inflazione complessiva è scesa dello 0,1% rispetto al mese precedente, spingendo il tasso annuo al 6,5% dal 7,1% di novembre. L’inflazione core (esclusi alimentari ed energia) è diminuita dal 6,0% al 5,7%. Missione compiuta?
Credo di no. Ritengo che i mercati siano ancora troppo ottimisti sull’inflazione e che sottovalutino un cambiamento molto importante nell’atteggiamento delle banche centrali. In questo post riassumerò il mio pensiero in quattro punti.
Le politiche macroeconomiche sono ancora relativamente accomodanti. È vero che gli shock dell’offerta si stanno attenuando, che l’inflazione degli affitti potrebbe raggiungere presto un picco e che l’attività economica si sta indebolendo. Questo indebolimento, però, non è neppure lontanamente sufficiente a riportare la crescita dei prezzi verso il 2-3%, perché diverse spinte inflazionistiche sono ancora all’opera. In particolare:
- La politica fiscale rimane molto espansiva; abbiamo un disavanzo di bilancio superiore al 5% del prodotto interno lordo (PIL) con un’economia relativamente robusta; in aggiunta, il Congresso ha approvato una manovra da 1.700 miliardi di dollari che aumenta la spesa discrezionale del 6%.
- Le prestazioni previdenziali e gli assegni di invalidità sono appena aumentati di quasi il 9% per 70 milioni di persone, ovvero quasi il 30% della popolazione adulta.
- La Fed presenta ancora un bilancio molto più ampio rispetto al periodo pre-crisi, con un impatto espansivo sulla politica monetaria.
Credo che i mercati e molti analisti vedano il bicchiere mezzo pieno quando si tratta di crescita dei salari e aspettative d’inflazione.
- Esistono diversi indicatori della crescita dei salari; alcuni evidenziano un’incoraggiante tendenza alla decelerazione, altri no. Gli ultimi dati disponibili del Wage Growth Tracker della Fed di Atlanta indicano che la crescita salariale rimane su livelli piuttosto elevati. A dicembre i salari delle persone che hanno cambiato lavoro (“job switcher”) sono aumentati del 7,7% su base annua, ma quelli dei lavoratori che sono rimasti al loro posto (“job stayer”) sono saliti del 5,3%, segno che i datori di lavoro devono concedere aumenti significativi delle retribuzioni per trattenere i dipendenti.1 La crescita complessiva dei salari è arrivata al 6,1%.
- Continuiamo a sentire che le aspettative d’inflazione a lungo termine sono ancora ben ancorate, e in effetti l’indagine della Fed di New York sulle aspettative dei consumatori indica che l’inflazione attesa a cinque anni è di poco superiore al 2%;2 quella a un anno, però, si attesta al 5,2%. L’inflazione ha superato il 5% già da un anno e mezzo e i consumatori si aspettano che rimanga al di sopra di tale livello per un altro anno. A mio avviso ciò significa che i consumatori si aspettano in effetti una futura discesa dell’inflazione verso il target, ma che sull’orizzonte temporale rilevante per la maggior parte delle loro decisioni economiche prevedono che l’inflazione rimarrà molto più elevata.
In sintesi, il mercato del lavoro statunitense si presenta molto solido, con un tasso di disoccupazione ancora al 3,5%, una crescita salariale del 6% e aspettative d’inflazione a un anno sopra il 5%. Sembra dunque molto improbabile che si riesca a dimezzare il tasso d’inflazione entro la fine di quest’anno con la sola riduzione dei posti di lavoro vacanti. Ritengo più probabile che l’anno si concluda con un’inflazione del 4-5%.
L’inversione della curva dei rendimenti suggerisce che i mercati obbligazionari si aspettano una svolta imminente della Fed
Figura 1: Differenziale di rendimento tra Treasury USA a 2 anni e a 3 mesi
Da gennaio 2000 al 18 gennaio 2023

Fonti: Bloomberg. Al 18 gennaio 2023. Le aree ombreggiate indicano le fasi di recessione come definite dall’US National Bureau of Economic Research (NBER). La performance passata non costituisce un’indicazione o una garanzia dei risultati futuri.
Le condizioni finanziarie rimangono accomodanti e questo potrebbe trasformare la fiducia dei mercati nella riduzione dei tassi in una profezia controproducente. I mercati continuano a mettere alla prova la Fed. La banca centrale statunitense continua a promettere che attuerà ulteriori rialzi dei tassi e che manterrà una politica restrittiva per un lungo periodo di tempo. I mercati scommettono che, a fronte di un ulteriore indebolimento della crescita, la Fed farà marcia indietro e inizierà a ridurre i tassi. Tuttavia, dato che l’allentamento delle condizioni finanziarie compensa in parte le misure restrittive della Fed, la banca centrale rischia che le pressioni inflazionistiche si consolidino a un livello scomodamente elevato. Questo gioco del gatto col topo è uno dei motivi per cui ritengo che la Fed dovrà aumentare il tasso di riferimento al 5,00-5,25% e lasciarlo a quel livello per il resto dell’anno.
Il Wage Growth Tracker della Fed di Atlanta indica pressioni salariali ancora elevate
Figura 2: Wage Growth Tracker della Fed di Atlanta
Da gennaio 1998 a dicembre 2022

Fonti: Bloomberg. Al 18 gennaio 2023. Le aree ombreggiate indicano le fasi di recessione come definite dall’US National Bureau of Economic Research (NBER). La performance passata non costituisce un’indicazione o una garanzia dei risultati futuri.
Soprattutto, credo che i mercati finanziari sbaglino a credere che le banche centrali finiranno per considerare questo episodio di inflazione come una semplice anomalia temporanea. L’impennata dell’inflazione degli ultimi due anni avrà un effetto duraturo sull’atteggiamento e sull’orientamento delle autorità monetarie, analogo a quello provocato dalla crisi finanziaria globale (GFC).
Quest’ultima non si è tradotta in una nuova grande depressione, ma le banche centrali sono diventate molto più sensibili al rischio di deflazione e per i 10 anni successivi hanno reagito a ogni shock con un allentamento monetario spropositato. Analogamente, la recente impennata dell’inflazione non sfocerà in un’iperinflazione e nemmeno in una spirale inflazionistica come quelle degli anni ’70, ma renderà le autorità molto più sensibili al rischio di un’inflazione più elevata e radicata. Le banche centrali sono ora consapevoli che il mantenimento di una politica monetaria accomodante per un periodo prolungato ha contribuito a un aumento pluriennale dell’inflazione che sarà difficile riportare sotto controllo. Lo si può vedere nelle dichiarazioni degli esponenti sia della Fed che della Banca centrale europea. Di conseguenza, poste di fronte a un rallentamento e possibilmente a una contrazione dell’economia, le banche centrali non si affretteranno a mettere in campo tutti gli strumenti a loro disposizione, abbassando i tassi a zero e avviando un nuovo programma di quantitative easing. Credo invece che si limiteranno a ridurre i tassi in misura più graduale, come hanno tradizionalmente fatto.
Ciò è rafforzato da un’altra considerazione: negli ultimi quindici anni circa le banche centrali hanno potuto contare su importanti forze disinflazionistiche, in particolare l’aumento dell’offerta di lavoro proveniente dalla Cina e l’ispessimento delle catene di approvvigionamento globali. Queste forze hanno permesso di attuare un allentamento monetario di notevole entità per sostenere i prezzi delle attività finanziarie senza alimentare l’inflazione dei beni e dei servizi. Adesso non è più così. Nel libro “The Great Demographic Reversal”, Manoj Pradhan e Charles Goodhart presentano un’analisi interessante delle dinamiche demografiche. L’invecchiamento della popolazione cinese contribuisce più alla domanda che all’offerta, e ha quindi un impatto inflazionistico, contrariamente a quanto accaduto quando una popolazione cinese più giovane è entrata nel mercato globale e ha dato impulso più all’offerta che alla domanda. Analogamente, la transizione energetica e la riduzione della dipendenza delle imprese dalle catene di fornitura globali tendono a provocare un aumento dei costi, e hanno dunque un effetto inflazionistico.
È probabile pertanto che assisteremo a un cambiamento strutturale nell’atteggiamento delle banche centrali; i mercati non hanno ancora preso atto di questo cambiamento, ma saranno costretti a farlo. A mio avviso, si prospetta un periodo di molti anni in cui i mercati impareranno a prezzare il rischio senza una solida rete di sicurezza approntata dalle banche centrali. La volatilità è destinata ad aumentare notevolmente; ne abbiamo già avuto un assaggio. Il risvolto positivo è che questo aggiustamento genera nuove opportunità di investimento, in particolare nel reddito fisso, dove l’attenzione può finalmente spostarsi sulla ricerca del valore basata sull’analisi, anziché sulla ricerca ossessiva di rendimento a un rischio sempre più alto.
- Fonte: Federal Reserve Bank of Atlanta, dati a dicembre 2022.
- Fonte: Federal Reserve Bank of New York, December 2022 Survey of Consumer Expectations. Non vi è alcuna garanzia che un’eventuale stima, proiezione o previsione si realizzi.
QUALI SONO I RISCHI?
Tutti gli investimenti comportano rischi, inclusa la possibile perdita del capitale. Il valore degli investimenti può diminuire oltre che aumentare; di conseguenza, gli investitori potrebbero non recuperare l’intero ammontare del proprio investimento. I prezzi delle obbligazioni si muovono di norma in direzione opposta a quella dei tassi di interesse. Di conseguenza, man mano che i prezzi delle obbligazioni detenute in un portafoglio si adeguano a un aumento dei tassi d’interesse, il valore del portafoglio può diminuire.
