CONTRIBUTORI

Sonal Desai, Ph.D.
Chief Investment Officer,
Portfolio Manager
A gennaio le cifre dell’inflazione per gli Stati Uniti sono state uno sgradito guastafeste per i mercati finanziari, sferrando quello che sembra il colpo finale per le speranze di un taglio dei tassi d’interesse a marzo, facendo nuovamente salire i rendimenti obbligazionari e dando il via a un’importante correzione delle azioni nel giro di un solo giorno.
Primo, inquadriamo tutto ciò nella giusta prospettiva. L’inflazione headline su base annua è comunque scesa al 3,1, dal 3,4 di dicembre, mantenendosi tuttavia superiore al 2,9% previsto. E la correzione del mercato azionario, pur essendo una mossa notevole per l’arco di un solo giorno, lascia comunque intatta la tendenza al rialzo presente da ottobre.
Detto questo, nella comunicazione dell’inflazione a gennaio vi sono molti elementi che sostengono la mia view di lunga data secondo cui l’”ultimo miglio” della disinflazione sarà molto più arduo di quanto previsto dai mercati, la Federal Reserve (Fed) dovrà pazientare molto con l’accomodamento monetario, e i tassi del nuovo equilibrio al quale tendiamo saranno decisamente superiori a quelli ai quali eravamo abituati nel periodo di rialzo pre-inflazione.
Cominciamo dall’inflazione “supercore”, ossia il prezzo dei servizi escluse energia e abitazioni. La Fed l’ha evidenziata come la misura probabilmente più rappresentativa dei trend di inflazione sottostante, e più sensibile alle pressioni dei salari. L’aumento su base mensile è stato dello 0,9%, segnando tre mesi consecutivi di accelerazione e il ritmo degli aumenti più rapido da aprile 2022. Hanno trainato l’accelerazione servizi medici, attività ricreative, istruzione, comunicazioni, alberghi, biglietti aerei e altri trasporti intercity: un range di categorie piuttosto ampio. Su base annuale, la variazione dell’indice supercore è decisamente superiore al 4%. Ancora più preoccupante, su base annualizzata semestrale l’inflazione supercore attualmente è aumentata del 5,5%: un andamento visto per l’ultima volta verso la fine del 2022 (vedere la mappa termica alla pagina seguente).
Considerando il segmento degli alloggi, questo componente è stato ritenuto una fonte affidabile della futura disinflazione in atto, prevedendo che gli effetti di contratti di affitto meno costosi saranno avvertiti in ritardo nelle statistiche dell’inflazione. Anche questa potrebbe essere un’altra delusione. A gennaio vi è stata un’accelerazione degli alloggi da affittare occupati dai proprietari. Inoltre, il mio collega Nikhil Mohan, economist e research analyst, Franklin Templeton Fixed Income, ha sottolineato che dall’inizio del 2021 gli affitti misurati nelle spese per i consumi personali (PCE) hanno evidenziato una notevole divergenza rispetto agli affitti misurati nello Zillow Observed Rent Index (vedere grafico). Nei mesi più recenti, l’aumento degli affitti misurati dallo Zillow è rallentato, mentre il componente degli affitti del PCE continua ad aumentare costantemente, recuperando gradualmente. Come è visibile nel grafico, gli affitti PCE devono ancora fare molta strada per colmare il divario dagli affitti osservati nello Zillow. Se quanto sta avvenendo è in effetti un recupero, potrebbe esserci ancora un bel po’ di pressione tendente al rialzo dell’inflazione nel componente del costo degli affitti dell’inflazione e pertanto il contributo degli alloggi alla disinflazione potrebbe non essere come generalmente ipotizzato.
Mappa termica dei prezzi al consumo
Al 14 febbraio 2024

Fonti: Franklin Fixed Income Research, BLS, Macrobond.
Affitti osservati Zillow vs. misure affitti PCE: I livelli degli affitti PCE non hanno ancora raggiunto i livelli osservati
2019–2024
Al 14 febbraio 2024

Fonti: Franklin Fixed Income Research, BLS, Zillow, BEA, FHFA, Macrobond.
I prezzi dei beni core sono scesi per il terzo mese consecutivo. È una buona notizia, che conferma come il rincaro dei beni core fosse ampiamente transitorio, e sembra che si stia invertendo con la normalizzazione delle catene di fornitura.
Guardando al futuro, tuttavia, ritengo che faremmo bene a tenere presenti tre punti:
- L’economia statunitense è ovviamente in ottima salute. Abbiamo visto cifre robuste nel mercato del lavoro, solidi aumenti costanti dei salari, e sorprese positive nella fiducia dei consumatori, la spesa retail e la crescita del prodotto interno lordo. A fronte di questo scenario, è difficile che lo stallo dell’inflazione possa sorprendere. È vero che vi era un componente transitorio dovuto a problemi nelle forniture, che attualmente si stanno risolvendo. Tuttavia, come avevo sostenuto fin dall’inizio, gli aumenti delle pressioni generate dall’inflazione rispecchiavano in parte una forte domanda aggregata: e questa persiste. Le forniture si sono riprese, anche con il rimbalzo della produttività che avevo citato nel mio articolo precedente, ma non abbastanza da soddisfare una forte domanda costante.
- Gli effetti dovuti agli shock delle forniture non sono svaniti completamente. I problemi nel Mar Rosso hanno già fatto salire i costi dei trasporti, che potrebbero essere eventualmente trasferiti sui consumatori, e le tensioni nel Medio Oriente non danno alcun segno di allentamento. E guardando alla Cina o alla Russia, i rischi geopolitici in generale sembrano aggravarsi.
- La politica fiscale continua ad essere molto accomodante, con pochissime probabilità di una flessione ora che siamo entrati in un anno di elezioni.
Combinando queste tre considerazioni con i segnali presenti nelle ultime cifre dell’inflazione, il rischio che questa dimostri di essere ostinata appare notevole - e peraltro anche le cifre di un’inflazione vischiosa comunicate dalla Cleveland Fed e l’Atlanta Fed trasmettono un messaggio molto simile. Ciò non significa che stia tornando a crescere un nuovo rischio di inflazione, obbligando la Fed a considerare altri rialzi. Secondo me tuttavia implica una maggiore incertezza riguardo a quanto tempo sarà necessario prima di un ritorno sostenibile dell’inflazione al 2%.
La Fed ha saggiamente ridimensionato l’entusiasmo del mercato nelle ultime settimane, dopo l’esuberanza irrazionale che aveva caratterizzato la fine del 2023. A mio avviso la seconda metà dell’anno continua ad essere il momento più probabile per un primo taglio dei tassi d’interesse, e la possibilità di un calo superiore a 75 punti base (pb) del tasso dei Fed Fund mi sembra molto esigua. La riduzione maggiore potrebbe essere di soli 50 pb.
Non è la prima volta che le fervide speranze dei mercati di tagli precoci e ampi dei tassi sono state stroncate - e non sarà l’ultima. I mercati finanziari vogliono anticipare un accomodamento monetario rilevante, e secondo me in occasione del prossimo datapoint debole, o della prossima dichiarazione accomodante di un funzionario della Fed, potremmo vedere riemergere previsioni di tagli dei tassi. Che poi, ci scommetterei, potrebbero essere nuovamente stroncate. Pertanto allacciate le cinture per una volatilità persistente, e da parte mia riconfermo la previsione di rendimenti dei Treasury a 10 anni nel range del 4,25%-4,50%.
Infine, sul lungo periodo: I dati relativi all’attività e le cifre dell’inflazione suggeriscono tutti che la politica monetaria non è affatto restrittiva. A sua volta, ciò significa che il tasso d’interesse neutrale è più alto di quanto avesse prefissato la Fed e i mercati continuino ad attendersi. Certi funzionari della Fed l’hanno segnalato recentemente, e l’ho sostenuto anch’io per qualche tempo, ma vale comunque la pena di ripeterlo: il tasso reale neutrale è probabilmente più vicino al 2% che non allo 0,5% stimato dalla Fed, e ciò implica che il tasso dei Fed Fund neutrale è probabilmente più vicino al 4%. È opportuno che gli investitori ne tengano conto nel programmare la loro strategia d’investimento per il ciclo di allentamento.
QUALI SONO I RISCHI?
Tutti gli investimenti comportano rischi, inclusa la possibile perdita del capitale.
I titoli azionari sono soggetti a fluttuazioni dei prezzi e possibile perdita del capitale.
I titoli obbligazionari comportano rischi legati a tassi d’interesse, di credito, di inflazione e rischi di reinvestimento, oltre alla possibile perdita del capitale. Quando i tassi d’interesse salgono, il valore dei titoli obbligazionari scende. Le obbligazioni ad alto rendimento con un rating basso comportano a una maggiore volatilità dei prezzi, una liquidità scarsa e il rischio di insolvenza.
