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Dopo mesi di prolungata incertezza, l’annuncio fatto dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump durante il “Liberation day” offre maggiore chiarezza sulla sua politica in materia di dazi. L’annuncio spiana la strada per possibili negoziati bilaterali, per cui l’incertezza è destinata a proseguire, ma quanto meno sappiamo adesso quale è lo scenario peggiore.

Più che “Liberation Day”, sarebbe più appropriato parlare di “Tariff Day” o “T-Day”. I principali provvedimenti: un dazio aggiuntivo medio del 34% sulle importazioni cinesi (che porta il dazio complessivo al 54%); 20% sulle importazioni dall’Unione europea; nel caso di Canada e Messico, le merci rientranti nell’accordo tra Stati Uniti, Messico e Canada (USMCA) sono esenti, mentre le altre saranno soggette a dazi; per tutti gli altri paesi sono previste tariffe doganali variabili, ma con un’aliquota minima del 10%. È previsto inoltre un dazio universale del 25% sulle importazioni di auto.

L’incertezza prevalsa finora ha spinto le aziende a sospendere i piani di investimento e ha frenato la crescita nel primo trimestre di quest’anno. Lo scenario più chiaro che si va delineando dovrebbe consentire alle imprese di cominciare a riformulare i loro piani. Il quadro, però, rimane molto incerto, soprattutto se si considerano le potenziali ritorsioni che potrebbero sfociare in una più ampia guerra commerciale.

Ho pensato, tuttavia, che sarebbe comunque utile farsi un’idea dell’impatto di questi dazi, partendo da alcuni calcoli approssimativi.

L’amministrazione Trump prevede che i nuovi dazi frutteranno entrate per circa 600 miliardi di dollari all’anno. Alcuni sono scettici sulla possibilità che questo obiettivo venga raggiunto, quindi prendiamo tale dato come tetto massimo e consideriamo anche uno scenario alternativo con un gettito più contenuto di 400 miliardi di dollari.

I dazi sono un tipo di imposta; accrescono le entrate pubbliche, ma, come tutte le imposte, hanno effetti negativi sulla crescita. Più precisamente, sono un’imposta sui consumi, in particolare sui consumi di beni importati. Qual è l’entità dell’imposta prelevata in questo caso? Sulla base dei conti economici nazionali del 2024 (Fonte: Bureau of Economic Analysis), il prodotto interno lordo (PIL) degli Stati Uniti ammontava a 29.000 miliardi di dollari. Il 70% del PIL, ovvero quasi 20.000 miliardi, era costituito dai consumi.

Le previste entrate di 400-600 miliardi di dollari prodotte dai dazi equivarrebbero quindi a un’imposta del 2-3% sui consumi totali di beni e servizi. Questo corrisponderebbe inoltre a un dazio medio del 12-18% su tutte le importazioni di merci (che nel 2024 ammontavano a circa 3.300 miliardi di dollari). Queste cifre sono riassunte nella tabella seguente. Come ho menzionato in articoli precedenti, le importazioni rappresentano una quota molto ridotta del PIL statunitense; pertanto, questi dazi dalle aliquote elevate colpiscono solo una quota esigua dei consumi statunitensi nel loro insieme e sono l’equivalente di un’imposta sulle vendite piuttosto bassa.

 

 

Stima contenuta

Stima elevata

Entrate previste dai dazi, in miliardi di USD

400

600

Aliquota di un’equivalente imposta sulle vendite di tutti i beni e servizi

2%

3%

Aliquota media corrispondente del dazio

12%

18%

 

Supponiamo che il governo avesse annunciato un’imposta universale sulle vendite del 2-3%. Credo che in questo caso analisti e mercati avrebbero avuto probabilmente una reazione meno impaurita di quella che traspira da alcuni titoli di giornale. Ci sarebbe senz’altro qualche timore per le ricadute negative sulla crescita, ma pochi si spingerebbero fino a prevedere una recessione e nessuno a mio parere metterebbe in dubbio l’idea che l’aumento dell’inflazione sarebbe di breve durata. Secondo le nostre stime, l’impatto temporaneo di questi dazi sull’inflazione si aggirerebbe intorno a 1,25-1,50 punti percentuali (pp).

Su chi ricadrà in definitiva l’onere di queste tariffe doganali: sui consumatori statunitensi o sui produttori esteri? I dazi sono sempre pagati dall’importatore. Gli Stati Uniti, tuttavia, hanno un notevole potere contrattuale. I consumatori statunitensi sono sempre stati considerati il principale motore della crescita mondiale e per molti paesi gli Stati Uniti sono un mercato di esportazione fondamentale. Possiamo dunque supporre che i produttori esteri saranno disposti ad assorbire parte del dazio accettando una compressione dei margini di profitto pur di mantenere la propria quota di mercato. Dopo tutto, molte imprese hanno accettato di vedersi sottrarre la loro proprietà intellettuale dai concorrenti cinesi, pagando questa “tassa” pur di accedere al grande mercato della Cina. Tuttavia, se il meccanismo della concorrenza funziona, lo spazio per una compressione dei margini di profitto dovrebbe essere limitato, per cui i consumatori statunitensi finiranno per pagare la maggior parte dell’onere di questo dazio.

Un’imposta sulle vendite del 2-3% non farebbe grande scalpore. La maggior parte degli economisti e degli studiosi di scienza delle finanze concorda sul fatto che un’imposta sui consumi è lo strumento più efficiente per raccogliere un gettito consistente, e come tale è da preferire sia alle imposte sui redditi che alle imposte patrimoniali. È per questo motivo che i paesi europei con un rapporto spesa pubblica/PIL compreso tra il 45% e il 50% fanno grande ricorso all’imposta sul valore aggiunto (IVA). 

I dazi all’importazione, tuttavia, sono uno strumento inefficiente di tassazione dei consumi. Tassando alcuni beni ma non altri, creano distorsioni nelle decisioni di consumo. Inoltre, imponendo un onere aggiuntivo sui produttori esteri, riducono la concorrenza. Le imprese statunitensi saranno meno incentivate a essere più produttive. Il risultato sarebbe probabilmente una minore crescita della produttività e pressioni inflazionistiche sottostanti un po’ più elevate nel settore dei beni.

Come tutte le imposte, i dazi devono essere valutati nel quadro della politica di bilancio complessiva. Trump ha indicato che l’attenzione si sposterà adesso verso gli sgravi fiscali e i tagli alla spesa. Una riduzione graduale delle imposte sul reddito delle persone fisiche e sul reddito delle società attenuerebbe l’impatto negativo dei dazi sulla crescita. C’è però un rovescio della medaglia: riduzioni consistenti delle imposte sul reddito annullerebbero parzialmente gli effetti dei dazi sulle entrate. Per riportare i disavanzi di bilancio su una traiettoria più sostenibile, resto convinta che gli Stati Uniti dovrebbero ridurre in misura significativa la spesa pubblica, ben più di quanto il Dipartimento dell’Efficienza Governativa (DOGE) possa realisticamente sperare di ottenere.

Nel tempo, in teoria, i dazi sulle importazioni potrebbero indurre alcune imprese a trasferire la produzione negli Stati Uniti. Tuttavia, l’entità e la rapidità di questo processo dipenderà anche da altri fattori, tra cui la regolamentazione, la stabilità e la prevedibilità del quadro macro generale, la qualità delle infrastrutture, i costi dell’energia e la disponibilità di lavoratori con le competenze necessarie. Il trasferimento delle strutture produttive richiede tempo, in molti casi almeno 3-5 anni.

I dazi non sono certo il mio strumento politico preferito. I miei calcoli approssimativi suggeriscono che l’impatto sulla crescita e sull’inflazione degli Stati Uniti dovrebbe essere gestibile. Tuttavia, permangono notevoli incertezze sulle possibili ripercussioni a livello globale. Innanzitutto, l’impatto sulla crescita sarà molto più pronunciato per i paesi che fanno maggiore affidamento sulle esportazioni quale motore di crescita. In secondo luogo, il dirottamento dei flussi commerciali potrebbe innescare aumenti di dazi più estesi e una guerra commerciale a tutto campo con ritorsioni crescenti. Le implicazioni negative per la crescita sia globale che statunitense sarebbero quindi più gravi. 

Tuttavia, mentre la seconda fase dei negoziati commerciali entra nel vivo, è tempo che l’amministrazione e gli investitori spostino l’attenzione sulle imposte e sulla deregolamentazione. I progressi in queste aree sarebbero determinanti per mitigare gli effetti avversi dei dazi. In questo contesto, prevedo un rallentamento della crescita del PIL statunitense nel corso di quest’anno, visti i danni già fatti nel primo trimestre e il probabile persistere di condizioni di debolezza anche all’inizio del secondo trimestre. Mi aspetto anche rischi al rialzo per l’inflazione, seppur sotto forma di shock temporaneo di 1,25-1,50 pp. Nel complesso, continuo a prevedere al più un solo taglio dei tassi da parte della Federal Reserve nel resto dell’anno. Ipotizzando di assistere a interventi concreti sul fronte della deregolamentazione e a modesti sgravi fiscali, ritengo che l’insieme dei rischi per la crescita e l’inflazione indurrà la Fed ad astenersi dal ridurre ulteriormente i tassi. Su questa base, e ferma restando l’incertezza sulla crescita globale cui abbiamo accennato sopra, i rischi per i rendimenti dei Treasury statunitensi sembrano essere orientati al rialzo.



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