CONTRIBUTORI

John W. Beck
Senior Vice President, Director of Fixed Income
Parafrasando il titolo del libro scritto dal premio Nobel Gabriel Garcia Marquez nel 1985, l’Amore al tempo del colera, non intendiamo descrivere i rischi prima del COVID-19, o dopo la nostra eventuale liberazione da settimane di blocco, bensì analizzare il modo di misurare il rischio nei nostri portafogli. In occasione dei recenti eventi di mercato, in alcuni casi la misurazione è risultata completamente sbagliata mentre in altri casi si è rivelata straordinariamente accurata.
Vediamo dove i modelli si sono dimostrati utili, senza nasconderci quando, invece, hanno fallito. A guidarci, tuttavia, dovrebbe essere l’idea di ragionare sul modo di posizionare i nostri portafogli quando (in futuro) usciremo dal blocco globale in atto. Le menti poco matematiche tireranno un sospiro di sollievo per il fatto di non dover essere esperti di modelli matematici per capire; in realtà, è sufficiente essere disposti ad accettare che qualsiasi modello implica anche un elemento di incertezza. O come diceva Mervyn King, il governatore della Banca d’Inghilterra durante la crisi finanziaria globale del 2008, tutti i modelli contengono sempre un elemento di “incertezza connaturata”.
NESSUN MODELLO DI RISCHIO COGLIE PERFETTAMENTE “L’INCERTEZZA CONNATURATA”.
Durante la crisi finanziaria globale, il direttore finanziario di una grande società di Wall Street ha detto che i mercati finanziari stavano vivendo la 25a deviazione standard consecutiva. Per quanto sufficiente a trasmettere la volatilità vissuta nei mercati, statisticamente l’affermazione era imprecisa poiché, per essere plausibile, una 25a deviazione standard che duri ininterrottamente per due giorni - per non parlare di tre o addirittura quattro giorni consecutivi - richiederebbe un numero di rilevazioni giornaliere a partire da prima della nascita della civiltà. Se invece il messaggio intendeva comunicare che si stavano osservando eventi di mercato che nessun modello di rischio o gestore poteva ragionevolmente prevedere, allora l’informazione era corretta. E così, ha dimostrato di gestire la crisi attuale con modelli attuali.
I gestori di portafoglio lavorano con il rischio. I gestori degli indici si impegnano a minimizzare il rischio per essere perfettamente in linea con l’obiettivo del benchmark; i gestori attivi lavorano per ottimizzare le posizioni di rischio in base ai risultati previsti. Entrambi i gestori utilizzano ottimizzatori ed entrambi comunicheranno la variabilità attesa rispetto al benchmark scelto - in normali condizioni di mercato. Finora, tuttavia, gli eventi del 2008 e ancor più quelli del 2020 sono stati così distanti dalla normalità da rendere i modelli di rischio piuttosto inadeguati in entrambi i casi.
Durante la pandemia di influenza spagnola del 1918, la popolazione globale era un quarto di quella attuale e con un’interconnessione globale molto più bassa nel commercio e fra le diverse economie. Ma anche mutuando il principio caro agli economisti del “ceteris paribus” ossia “a parità di condizioni”, la capacità di qualsiasi modello di rischio, anche se ricco di un secolo di dati, di cogliere correttamente gli eventi di mercato, come abbiamo visto di recente, è illusoria.
Il modello di rischio utilizzato nei portafogli obbligazionari globali misura il rischio/la volatilità sulla base di osservazioni storiche giornaliere. Nella misurazione del rischio, tutti i giorni sono considerati di uguale importanza; quindi, i giorni bui del 1987, la crisi russa del 1998, l’11 settembre del 2001 e la crisi finanziaria globale del 2008 pesano quanto qualsiasi giorno di attività piatta dei mercati. È quello che viene definito un rischio “non ponderato”. Per rischi di altro tipo, potremmo dire che gli eventi del 1987, del 2001 o anche del 2008 sono molto lontani da noi e che il peso del rischio è tanto maggiore quanto più è recente.
Quindi, anche se non ignoreremo del tutto questi fattori, attribuiremo un maggior peso alle condizioni più recenti. I matematici chiamano questo metodo GARCH (eteroschedasticità condizionata autoregressiva generalizzata), mentre gli statistici e i risk modeler parlano di rischio “ponderato”. E il breve momento di commistione scientifica interviene quando prevediamo ciò che accadrà nei nostri portafogli con il 95% di probabilità basate su osservazioni del passato. Possiamo addirittura prevedere con un livello di certezza del 99% cosa accadrebbe in caso di “massima perdita”. Ma volendo essere cinici, cosa ne è del restante 5% e cosa accadrebbe nell’1% dei casi? Per rispondere con le parole di un altro premio Nobel, “la risposta, amico mio, sta soffiando nel vento”. Nessun modello di rischio coglierà perfettamente quella che abbiamo definito l’”incertezza connaturata”.
E QUESTO COSA IMPLICA PER IL PORTAFOGLIO?
Quanti rischi comportavano i portafogli? Il mercato ha restituito risultati in linea con il rischio previsto? Un confronto utile è in realtà quello con il 2008, quando il nostro portafoglio aggregato globale è entrato nell’ultimo trimestre con un “tracking error” dell’1%, il che significa che in condizioni normali il rendimento sarebbe di +/-1% rispetto al rendimento del benchmark. Il risultato nel 2008? L’1% del rischio misurato si è tradotto in un risultato peggiore del 4% rispetto al benchmark. All’ingresso nella crisi del 2020 il portafoglio presentava un rischio leggermente più elevato, in questo caso del 2%, ma perfettamente gestibile. Il risultato, almeno nell’ultimo mese, è stato di proporzioni analoghe, ma leggermente migliore di quello del 2008. Questo dimostra che i modelli di rischio non funzionano? Oppure dimostra l’”incertezza connaturata”?
La certezza del risultato che è mancata ai modelli di rischio è fortunatamente venuta dalla ripartizione del rischio. Il rischio del portafoglio è suddiviso in tre grandi categorie: rischio valutario, rischio paese/durata e rischio di spread, che coprono le principali caratteristiche del nostro portafoglio. All’ingresso nell’attuale crisi, il rischio è stato ripartito all’incirca nel modo seguente: un quarto in posizioni valutarie; un quarto in posizioni sulle curve di duration/rendimento; la restante metà in posizioni settoriali (titoli di Stato o obbligazioni corporate), posizioni creditizie (mutui, obbligazioni corporate, mercati emergenti o titoli high yield), e selezione di emissioni obbligazionarie (obbligazioni corporate).
In una pandemia globale non ci sono vincitori. Quando tutte le aree geografiche risentono in modo pressappoco uguale dell’impatto dello shock da COVID-19, il posizionamento valutario diventa in larga misura irrilevante.
Le chiusure causate dal COVID-19 nel Regno Unito (GBP), in Europa (EUR), in Polonia (PLN), in Giappone (JPY) o in Norvegia (NOK) hanno causato effetti molto simili. Un confronto relativo delle rispettive valute ha scarsa rilevanza, e ugualmente scarsa è stata l’incidenza nei nostri portafogli. Benché vi sia stata una minima variabilità, l’impatto è stato modesto e in linea con il rischio previsto.
Nel nostro posizionamento del rischio paese/durata, abbiamo privilegiato alcune regioni (l’Europa rispetto agli Stati Uniti; la Polonia rispetto al Regno Unito; l’Australia rispetto agli Stati Uniti e praticamente qualsiasi area al Giappone). Quando i governi si sono attivati per chiudere temporaneamente le loro economie e quasi tutte le banche centrali di tutto il mondo hanno abbattuto i tassi d’interesse a poco sopra lo zero e/o hanno promesso di acquistare enormi quantità di titoli di stato emessi dai loro governi, ancora una volta lo scarto tra risultati e previsioni è stato minimo.
Gli asset davvero privi di rischio (in realtà appena tre, dato che i rendimenti dei titoli di Stato giapponesi erano già ai minimi, cioè Treasury statunitensi, Gilt britannici e Bund tedeschi) hanno certamente sovraperformato, e alcuni titoli di Stato europei hanno evidenziato differenze. Tuttavia, ancora una volta, il risultato ottenuto dai portafogli è perfettamente in linea con la volatilità di mercato attesa. Gli indicatori di rischio hanno funzionato. Nonostante la diversa duration assunta nei rispettivi mercati, la duration complessiva è stata abbastanza in linea con quella del benchmark e il risultato dei portafogli è stato in gran parte corrispondente a quello che avrebbero potuto prevedere i modelli di rischio.
DOVE GLI INDICATORI DI RISCHIO NON HANNO FUNZIONATO E PERCHÉ?
Le selezioni per settori, spread e titoli hanno contribuito a complicare notevolmente la capacità dei modelli di prevedere correttamente i risultati. Il mercato ha ottenuto risultati sensibilmente peggiori, ma in parte questo scarto rispetto alle previsioni è del tutto comprensibile ex post (un’altra espressione usata dagli economisti che, non essendo riusciti a prevedere il futuro, ora possono spiegare i loro errori di previsione del passato). Ma quando un settore (ad esempio, l’automotive, l’intrattenimento o il turismo) è completamente chiuso sino a data da destinarsi ed è difficile prevedere un tempo di recupero, non deve stupire che questi settori abbiano amplificato il rischio di portafoglio desunto dai dati di previsione.
I pagamenti delle rate dei mutui sono ovviamente incerti quando molti lavoratori vengono lasciati a casa. La riscossione degli affitti degli uffici è incerta se non si conosce la loro data di riapertura e i pedaggi autostradali non vengono incassati se nessuno viaggia. Ma noi partiamo dal presupposto certo che torneremo a lavorare, che vorremo muoverci in un mondo senza troppi distanziamenti sociali: se la previsione di rendimento è stata penalizzata eccessivamente dall’amplificazione del rischio in questi settori, allora crediamo possano esistere delle opportunità.
Potremmo discutere della forma che assumerà la ripresa economica: a V (meno probabile man mano che si protraggono le chiusure), a U (più plausibile soprattutto data l’entità del sostegno fiscale fornito dai governi alle loro economie) o a L (bisogna essere davvero pessimisti per presumere di non potersi aspettare alcuna ripresa e che la perdita di produzione sarà permanente). Ma alla luce di questi risultati variabili, non sembra che le opportunità risiedano nell’indovinare il livello dei tassi d’interesse (cioè nel correggere la nostra posizione sulla durata) o nel capire quali valute potrebbero apprezzarsi più di altre (al momento un altro dato imponderabile). Sembra piuttosto che le opportunità vadano cercate nelle aree colpite più duramente rispetto alle previsioni.
Quindi, invece di lamentare i difetti dei modelli di rischio, dove l’”incertezza connaturata” ha esposto ai rischi estremi delle previsioni, è il modo in cui le cose sono andate a finire a offrirci indizi su dove cercare la ripresa.
QUALI SONO I RISCHI?
Tutti gli investimenti comportano rischi, inclusa la possibile perdita del capitale. La diversificazione non garantisce utili né esclude il rischio di perdite d’investimento. I prezzi delle azioni subiscono rialzi e ribassi, talvolta estremamente rapidi e marcati, a causa di fattori che riguardano singole società, particolari industrie o settori o condizioni di mercato generali. I prezzi delle obbligazioni si muovono di norma in direzione opposta a quella dei tassi di interesse. Di conseguenza, a mano a mano che i prezzi delle obbligazioni detenute in un portafoglio d’investimento si adeguano a un aumento dei tassi d’interesse, il valore del portafoglio può diminuire. Gli investimenti esteri comportano rischi particolari quali fluttuazioni dei cambi, instabilità economica e sviluppi politici. Gli investimenti nei mercati emergenti, un segmento dei quali è costituito dai mercati di frontiera, implicano rischi più accentuati connessi con gli stessi fattori, oltre a quelli associati alle dimensioni minori dei mercati in questione, ai volumi inferiori di liquidità e alla mancanza di strutture legali, politiche, economiche e sociali consolidate a supporto dei mercati mobiliari. I rischi associati ai mercati emergenti sono generalmente amplificati nei mercati di frontiera poiché gli elementi summenzionati (oltre a vari fattori quali la maggiore probabilità di estrema volatilità dei prezzi, illiquidità, barriere commerciali e controlli dei cambi) sono di norma meno sviluppati nei mercati di frontiera.
